40 Anni in Giappone: la storia di Roxana
Provate a immaginare di atterrare in Giappone negli anni ‘80. Senza Google Maps, senza Google Translate, senza social a raccontare cosa mangiare o quali templi visitare. Davanti a voi un cartello all’aeroporto con scritto “Alien”, dedicato agli stranieri, e un intero Paese non ancora “di moda”, né facile da decifrare.
Per Roxana, arrivata qui quasi quarant’anni fa, quel primo impatto non è stato un ostacolo: è stato una rivelazione.
“Quando sono arrivata in Giappone mi sono sentita, per la prima volta in vita mia, a casa.”
Una frase semplice, la sua, che però contiene un ribaltamento radicale: trovare la propria casa nel luogo più lontano da tutto ciò che conosci.
Il Giappone degli anni ‘80: un altro mondo
Roxana ricorda quello che definisce “l’ultimo Giappone”: i saluti profondi a 45°, le strade prive di turisti.
Non parlava una parola di giapponese. Non aveva dizionari, né un’app per tradurre al volo. Eppure ha imparato tutto “vivendo”, osservando, imitando: “Come una bambina all’asilo”, dice ridendo.
Ha vissuto nel sud, in un’isola remota, dove le signore del villaggio le insegnavano a pestare il mochi con il mortaio tradizionale per il Capodanno. Era circondata da una cultura che non conosceva, eppure non aveva aspettative, nè pregiudizi, solo la possibilità e la voglia di imparare.
Accettare ed essere accettati
In un Giappone molto meno internazionale di oggi, Roxana non si è mai sentita rifiutata.
“Forse perché prima di tutto ho accettato io loro”
Non ha cercato di imporre il suo modo, non si è irrigidita davanti alle regole diverse. Ha scelto di essere “sempre studentessa”, sempre con un taccuino invisibile in mano.
Eppure non tutto è stato semplice. La discriminazione l’ha toccata da vicino, ma non nei suoi confronti:
“L’ho vista sulla pelle di mia figlia. Metà italiana, metà giapponese, con i capelli chiari: all’asilo era ’la diversa’. Non per colpa dei bambini, ma per un sistema che non li educava alla diversità.”
Guarda l’intervista completa dedicata a Roxana
Il lato oscuro della storia: il popolo Ainu
Un giorno Roxana scopre – quasi per caso, ma “non a caso” come ripete spesso – l’esistenza degli Ainu, il popolo indigeno del nord del Giappone. Una storia di discriminazione e colonizzazione che si studia poco, che si racconta ancora meno, e che per decenni è stata volutamente nascosta.
Roxana parte allora con sua figlia per l’Hokkaido, per un viaggio senza indicazioni e senza programma. Insieme finiscono in una piccola locanda Ainu, proprio nei giorni del festival più importante dell’anno. Ed è lì che nasce un seme destinato a germogliare anni dopo.
Da quella esperienza nasce un libro: “Ainu – Le ombre nascoste”, che racconta le discriminazioni subite da questo popolo, ma anche il viaggio interiore di Roxana come donna, madre e straniera in Giappone.
“Non l’ho scritto per cercare la perfezione. L’ho scritto perché il messaggio arrivasse. Perché la loro storia non venisse dimenticata.”
Scopri anche la storia degli Ainu, il popolo discriminato del Giappone, protagonista del suo libro “Ainu: Le ombre nascoste”
Per Roxana, scrivere è diventato un dare voce a chi non la ha. In questo senso, il suo progetto ricorda quello che stiamo facendo con “Potevano rimanere in Italia ma…”, il nostro progetto di raccontare storie di italiani che hanno scelto di costruire vite autentiche all’estero. Roxana ha semplicemente iniziato quarant’anni prima, quando raccontare l’Italia in Giappone era ancora una rarità.
Un paese che cambia, un’essenza che rimane
Il Giappone di oggi, dice Roxana, è diverso: più globalizzato, più veloce, meno rituale. Molti inchini a 45° sono diventati un cenno con la testa.
Eppure, secondo lei, sotto la superficie moderna c’è qualcosa che non cambia mai:
“Quello spiritello da samurai che ognuno porta dentro, quella parte di tradizione che non si cancella.”
È quella doppia anima che l’ha fatta innamorare ed è quello che l’ha tenuta qui per quarant’anni. Roxana parla con serenità, non idealizza il Giappone, non lo difende a spada tratta. Lo osserva, lo vive e lo accetta.
“Sono io che ho scelto di vivere qui. Se qualcosa non mi va, non posso dare la colpa al Paese. O mi adatto, o torno indietro.”
E forse è proprio questa la lezione più grande: il luogo in cui trovi casa non è quello perfetto, ma quello che accetti nella sua imperfezione.
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La storia di Roxana ci ricorda che a volte la casa non è un luogo fisico, ma una scelta consapevole di restare, imparare, e accettare il mondo per quello che è.



















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